16 novembre 2005 – intervista a una “precaria”

Testimonianze dal tirreno del 16 novembre 2005

Il disagio di una ex operatrice
«Era un inferno e sono fuggita, mi sentivo solo una macchina

LIVORNO. «Perché mi sono licenziata? Hai presente la scena del film “Ufficiale e gentiluomo”, quella dove Richard Gere entra in fabbrica e porta via dalla catena di montaggio la mora, Paula? Ecco, io mi sentivo come quella ragazza. Solo che nessun ufficiale in divisa bianca sarebbe venuto a salvarmi: e allora mi sono salvata da sola». Lei ormai ci ride sopra. Anche perché nel frattempo ha trovato un altro lavoro, dove lo stipendio è più basso ma la qualità della vita migliore.
All’inizio ero contenta, poi…

 «Come mi chiamo? Diciamo Martina» (ma è chiaro che non è il suo vero nome): ha lavorato a un call center Vodafone per due anni, dal ’99. Quando ha iniziato di anni ne aveva 22 e la scuola l’aveva finita da tre. «Dopo tanti lavoretti qua e là – inizia – avevo bisogno di qualcosa di più sicuro. E infatti quando mi fecero firmare un contratto a tempo pieno di quattro mesi ero contentissima. Un po’ meno quando, dopo venti giorni dalla data in cui mi era scaduto il primo me ne fecero firmare un altro. Ma non c’erano alternative, e dire di no ad un posto di lavoro, di questi tempi, mi sembrava sinceramente da pazzi».
 Martina ha stretto i denti per un paio d’anni, poi ha inviato domande in giro e dal 2001 lavora all’Ipercoop qui a Livorno. «A raccontarla sembro esagerata, ma le assicuro che lavorare nelle condizioni che ci imponevano non era semplice. La giornata lavorativa, almeno fino a tre anni fa era strutturata così: in un turno di otto ore avevo due pause da quindici minuti l’una più una di mezz’ora per il pranzo. Poi, per sette ore, ero costantemente attaccata alla cuffia, o “logata” come si dice in gergo. Se avevo l’esigenza di andare in bagno prima della pausa di quindici minuti dovevo chiamare il supervisore e chiedere il permesso di disconnettermi. Una volta sono stata costretta a rimanere a casa e darmi malata: avevo un problema che mi costringeva ad andare al bagno spesso e il giorno precedente ero stata richiamata per aver chiesto il permesso di assentarmi alcuni minuti per andare alla toilette più di una volta».

Com’era alienante

 Ma a suo giudizio la cosa emotivamente più difficile da sopportare era il comportamento dei tutor: «Passavano tra le postazioni e si inserivano in cuffia per sentire come lavoravamo. Più che legittimo. Ma il clima non era certo distensivo. Come quando sul tabellone luminoso appeso davanti a noi appariva il numero degli utenti in attesa e, per farci velocizzare, i tutor iniziavano ad urlare: “Cento chiamate in coda, cento chiamate in coda!”».
 «Forse non ero adatta a quel tipo di lavoro – continua Martina – sicuramente mi creava dei problemi lavorare in una situazione di tensione, ma sono contenta di essere venuta via dopo il terzo contratto. Era alienante, per otto ore ripetevi in continuazione le stesse cose, non avevi contatti con i colleghi perché con le cuffie alle orecchie sei isolata anche da chi lavora gomito a gomito con te. Ho detto basta perché a 23 anni mi spaventava il fatto di fare un lavoro in cui ero una macchina: non usavo mai il cervello»

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